Quando Le Parole Non Bastano

In questa scura mattina di settembre alcuni cani s’incontrano in un parco cittadino, in un profluvio di segnali tesi a calmare, chiedere permesso, eccitare o invitare, studiarsi vicendevolmente, concertarsi… mentre le persone comprimono la loro complessità rituale d’incontro nella strettoia dicotomica del gioco o dell’aggressione.

La tavolozza che usiamo per descriverli è così povera, così dimessa! I cani entrano nella nostra vita di uomini, da millenni frequentano i nostri palazzi con la stessa eleganza – ed è incredibile osservarne i dipinti, ritrovare il loro sguardo che buca la tela e arriva fino a noi quasi per chiederci: “ora capisci cosa volevo dire?” – e ciò nonostante resta questo spaventoso silenzio d’incomprensione o, meglio, di pochezza.

Siamo poveri di parole, non che non si sia scritto o detto sul cane, abbiamo povertà di osservazione, avarizia di empatia. Davanti al cane l’uomo tende a non decentrarsi, a ingigantire il ritorno a sé:

Siamo ossessionati dall’obbedienza e dal controllo, narcotizzati dal bisogno affettivo e dal pietismo, schiavi del desiderio di possedere e di trasformare l’altro in un’espansione di noi stessi.

Il guinzaglio diventa la misura della nostra cattività egoica riflessa dal cane, il bocconcino si traduce nella compulsiva necessità di richiamare su di noi l’attenzione, la carezza non una profusione d’affetto ma una richiesta di conferma affettiva. Non riusciamo ad andare oltre l’egocentrismo e abbiamo così del cane un riflesso remoto, sorta di feticcio chiamato a rincorrere le nostre paure, a dar loro un volto verosimile fatto di denti aguzzi e di demoniaci furori protesi su di noi o trasformarsi di colpo in un amnios avvolgente che ci riporti il calore regressivo dell’utero, perché non riusciamo a concepire un mondo che non sia orbitante intorno a noi.

È stato il lupo a portare il cane oppure è vero il contrario, cioè il cane ha condotto il lupo nella cittadella delle nostre paure? Talvolta mi chiedo il perché di tanta ritrosia nel comprendere (etimologicamente) il cane, ovvero nel non lasciare indietro, volutamente o per miopia, gran parte delle sue caratteristiche. Le approssimazioni di accesso, poco più che prove d’autore, sono mostruosamente povere di consapevolezza circa la loro parzialità, frammentarietà, pregiudizialità.

Del cane si asserisce o si pretende di asserire la summa, la completezza, e sul cane non si vuole riflettere – guai al minimo dubbio! – quasi un peccato andare oltre il pietismo antropomorfo o la reificazione del “come funziona”.  Pensare a un’identità significa accettare la sfida del menabò, accogliere la prova d’autore e riflettere, giacché se veramente avessimo del cane il lavoro finito forse dovremmo dire addio a un incontro. Un menabò che cambia ci prende alla sprovvista, ma fortunatamente non siamo chiamati a chiudere la pagina.

Il cane è un progetto che si fa e che, come ho detto, segue e in qualche modo costruisce l’antropo-poiesi umana: è un volano che non si ferma, che disegna sempre nuove increspature nel mare delle possibilità. Ecco allora che diviene importante capire come l’uomo si muove rispetto al cane, non solo per definire l’orizzonte di proprietà, ma soprattutto per capire le declinazioni d’incontro, nei loro aspetti produttivi o di problematicità. Ogni dialogo prevede un’assunzione di ruolo e, parimenti, un’attribuzione e tutto questo dà vita a slittamenti di significato identitario, disegna nuove nicchie di coabitazione uomo-cane.

I cani corrono come la Regina Rossa per restare sull’orizzonte dell’ecumene, tallonati dal mobbing delle società che cambiano, dalle partnership che si estinguono lasciando senza parole le loro qualità performative. Crollano intere architetture somatiche e comportamentali, cercano disperatamente cooptazioni difficili, talvolta problematiche e ambigue. Il più delle volte non compresi.

Tratto da L’identità del cane

Roberto Marchesini

(http://www.marchesinietologia.it/2017/05/10/quando-le-parole-non-bastano/)

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